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IMMIGRATI IN RIVOLTA DEVASTANO AUTO CARABINIERI: 6 ANNI IN RESIDENCE DI LUSSO A SPESE VOSTRE
MARZO 26, 2021
Incredibile la cronaca del giornale locale di sinistra sulla rivolta andata in scena ieri dopo la morte di un immigrato nigeriano strafatto di alcol:
Poverini. La burocrazia li ha costretti a vivere sei anni in un residence di lusso a spese dei contribuenti.
La rabbia tracima intorno alle 15,30 con un lancio di sassi contro di noi. È il momento in cui il corpo del loro amico viene portato via, avvolto in un telo, mentre carabinieri e poliziotti cercano di farsi varco tra gente che urla da tutte le parti.
La rabbia tracima ora ma è dalla mattina (se non da prima) che quel misto di rancore e frustrazione sta covando. Da quando quel ragazzo, Tali Hocudua, 31 anni, è stato trovato morto nell’alloggio doveva aveva vissuto per due anni e dove non avrebbe più potuto restare perché senza permesso, senza titolo, senza motivo. Da alcuni giorni Hocudua era ufficialmente un clandestino, dopo sei anni di attesa aveva ottenuto solo un decreto di espulsione e l’unico sbocco per lui era il rientro in Nigeria.
E allora in quel centro di accoglienza scoppia la rivolta. Per quel ragazzo, per il quale tutti chiedono «justice», ma anche per loro stessi. Lo spiegano quelli meno agitati, e sono davvero pochi.
Da anni tutti loro aspettano che qualcuno decida la loro sorte. In teoria il limite massimo sarebbe diciotto mesi, di fatto ci vogliono almeno due anni prima di essere valutati dalla commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. E non è detto che finisca bene. Tra carte bollate, ricorsi e un bel po’ di burocrazia il tempo medio per sapere se puoi restare in Italia o se devi tornartene al tuo Paese è di cinque o sei anni. E nel frattempo devi aspettare in una struttura come la Caravella, un ex residence molto bello ma concepito come luogo di permanenza straordinaria. Cioè temporanea. Una struttura riadattata dove mezzi e servizi non mancano, ma le forze sono quelle che sono. Tutto è delegato all’associazione di riferimento indicata dalla prefettura, in questo caso la Croce rossa italiana di Piombino, che fa il possibile e l’impossibile per queste persone mettendo in campo dipendenti, volontari, mediatori culturali, psicologi, medici. Ma non basta. Non basta mai. Perché gestire tutte quelle persone che non parlano l’italiano, che provengono da mondi lontani e culture diverse, che non sono tutte uguali, non è uno scherzo. Finché tutto va bene, pace. Quando comincia a serpeggiare il malumore, ogni pretesto può essere una miccia. E quando la rabbia prende il sopravvento, la bomba esplode.
Le forze dell’ordine cercano di mediare. Da Livorno, il prefetto Paolo D’Attilio monitora la situazione. Sul posto il capitano dei carabinieri Luca Saliva e il dirigente del commissariato Rosario Gagliardi provano a rasserenare gli animi, parlano con molti di loro, ma non essendoci un vero e proprio rappresentante ogni gruppo protesta per conto suo. Ci provano anche gli stessi della Croce rossa. Alcuni sono africani come quelli che protestano. Hanno la stessa pelle, gli stessi tratti, parlano la stessa lingua. Ma in quel momento vengono percepiti come ostili, anche loro.
I manifestanti chiedono di parlare con la prefettura e soprattutto con giornalisti e operatori. «Cameraman, cameraman». Vogliono la televisione, vogliono che la loro protesta finisca sui telegiornali. Si “accontentano” anche della carta stampata, ma pretendono il fotografo. Poi si scagliano proprio contro di noi. Quando il loro amico è lì a terra, avvolto in un telo, a un metro dal carro funebre, quella rabbia cieca e sorda non risparmia nessuno. Una ragazza raccoglie alcuni sassi e ce li tira addosso. C’è chi prova a frenarla ma la maggior parte di loro individua il nuovo obiettivo: cronista e soprattutto fotografo. Le più scatenate sono le donne. Alcune hanno il pancione, sono incinte. Altre hanno il figlioletto imbracato sulle spalle. Accerchiano, spingono, provano a colpire, sputano. L’aggressione va a vuoto soltanto grazie a nervi saldi e all’intervento delle forze dell’ordine. Indietreggiando un metro alla volta torniamo tutti al cancello di ingresso. Là fuori, decine di auto di carabinieri (di cui una con il parabrezza anteriore sfondato), polizia, finanza. Una delle stesse volontarie della Cri è costretta a scappare di corsa, scortata da poliziotti e carabinieri.
Sono momenti di grande tensione e preoccupazione. E di tristezza. Gran parte di quei 115 immigrati provenienti soprattutto dall’Africa sono lì, a urlare, a sfogarsi, a farsi del male: riescono solo a dare ragione a tutti quelli che non li vorrebbero lì.
Questi vivono sei anni a spese dei contribuenti in residence di lusso coccolati dai volontari a pagamento della Croce Rossa. E quando, finalmente, i nostri pazzeschi tribunali si accorgono che in Nigeria non c’è la guerra, invece di rimborsare per la permanenza sfondano le auto dei carabinieri. Senza alcuna conseguenza.
Anzi, il prefeto va a ‘trattare’ con i rivoltosi.
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