Diritto di visita del genitore: la Cedu condanna i tribunali italianiDopo dieci anni di infruttuosi ricorsi giudiziari, l’intervento dei servizi sociali e denunce penali, un genitore ricorre alla Corte Europea per i diritti dell’uomo sostenendo che lo Stato Italiano, attraverso i suoi organi giurisdizionali, non ha azionato le opportune misure volte a rendere effettivo il suo diritto di vedere la figlia.
L’odissea giudiziaria di quest’uomo era cominciata nel 2003, la madre di una bambina (all’epoca di due anni) chiede ed ottiene l’affidamento esclusivo della minore, con diritto per il padre di vedere la figlia due pomeriggi la settimana, due week end al mese, senza pernottamento vista la tenera età della bambina, tre giorni in occasione della Pasqua e sei giorni per le festività natalizie.
Si tratta, come ben sanno gli operatori di diritto, di condizioni standard che vengono prese dai Tribunali che ritenengono questi tempi di frequentazione “giusti” nell’interesse del minore.
Dopo il provvedimento, la madre della minore si trasferisce in un'altra città e impedisce al padre di vedere la figlia secondo quanto stabilito, tanto che il padre si rivolge al Giudice tutelare lamentando che ha potuto incontrare la bambina una sola volta nell’arco di alcuni mesi, per pochi minuti e alla presenza della madre e di un suo zio.
Proprio in ragione della forte ostilità della donna nei confronti dell’uomo, il Giudice tutelare stabilisce che gli incontri padre-figlia dovranno avvenire mediante l’ausilio dei servizi sociali alla presenza della madre della bimba.
La madre non ottempera però nemmeno a tali provvedimenti, non presentandosi con la figlia agli incontri protetti, così il padre è costretto ripetutamente ad adire il giudice tutelare senza ottenere però una tutela effettiva del suo diritto. Inoltre, nella perizia espletata dal CTU nominato dal giudice tutelare, emerge chiaramente un giudizio d’inidoneità della madre nel gestire il rapporto padre-figlia per la quale si suggerisce un sostegno psicologico.
Nel 2007 il padre chiede l’affidamento esclusivo della figlia ma il Tribunale conferma le precedenti condizioni rilevando il buon esito del sostegno psicologico al quale si sta sottoponendo la madre.
Segue una causa di appello in cui il genitore sostiene che ormai il rapporto con la figlia sta diventando irrecuperabile a causa dell’atteggiamento ostruzionistico della madre e anche dell’intervento poco incisivo dei servizi sociali. Dalla consulenza psicologica sulla minore emerge che la stessa soffre di depressione infantile e che allo stato è meglio allentare le relazioni con il padre. Nei mesi successivi, infatti, la bambina si rifiuta di vederlo, e successivamente, gli incontri sono sporadici e sempre alla presenza di un operatore dei servizi sociali. Anche la bambina viene sottoposta ad un sostegno psicologico.
Il ricorso alla Corte Europea si basa sulla violazione dell’art. 8 della Convenzione secondo il quale “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare. Non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.”. Il ricorrente sostiene che le autorità giurisdizionali italiane non abbiano effettivamente garantito il suo diritto alla vita familiare, e cioè al suo diritto di coltivare con la figlia un rapporto equilibrato nonostante l’elevata conflittualità con l’altro genitore.
Secondo la Corte, lo stato deve mettere a disposizione del cittadino tutti i mezzi giudiziari che consentano l’attuazione dei propri diritti ed il rispetto dei provvedimenti giudiziari che riguardano tali diritti, anche prevedendo misure specifiche che si rendano opportune nel caso concreto. Infatti – secondo la Corte – le autorità italiane si sarebbero limitate ad adottare una serie di misure automatiche e poco personalizzate, lasciando poi ampio spazio alla’operatività dei servizi sociali che non sono stati in grado di gestire la situazione. Si rileva, infatti, come poteva essere disposta fin da subito un precorso di terapia familiare.
I tempi lunghi imposti dagli svariati ricorsi, appelli ecc.. hanno fatto sì che si consolidasse una situazione di violazione di fatto dei provvedimenti presi. Pertanto, non solo le misure devono essere adeguate, ma devono essere adottate in tempi brevi, altrimenti si rischia che vi siano conseguenze irreparabili per i rapporti tra bambino e genitore non convivente.
Lo Stato italiano è così stato condannato a risarcire il ricorrente con la somma di 25.000 euro di cui 15.000 a titolo di danno morale.
Occorre segnalare che già in precedenza, in altre decisioni, la Corte aveva assunto questa posizione, in particolare sulle azioni positive che lo stato deve compiere per proteggere le relazioni familiari di cui all’art. 8 della Convenzione, non limitandosi alla non ingerenza. Si ricorda, tra i casi italiani, la sentenza Cedu del 2 novembre 2010 Piazzi c. Italia, con la quale la Corte ha costatato la violazione dell’art. 8 della Convenzione in ragione della lunghezza delle procedure e dell’inefficacia delle misure adottate per far rispettare il diritto di visita del ricorrente al fine di ristabilire i rapporti con il figlio minore, ed ha censurato il comportamento tenuto dell’autorità giudiziaria, che aveva delegato ai servizi sociali la concreta gestione della questione senza svolgere verifiche efficaci e tempestive sull’esecuzione dei propri provvedimenti.
(Altalex, 8 febbraio 2013. Nota di Giuseppina Vassallo)