domenica 30 dicembre 2018

MANOVRA, PER 1° VOLTA PENSIONATI MINIMO PRENDERANNO PIÙ DI PROFUGHI

 






Potete chiamarla con il suo nome: svolta epocale
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Una svolta. Grazie alla manovra approvata ieri, per la prima volta, i pensionati italiani al minimo prenderanno più soldi dei cosiddetti profughi. Le loro pensioni saranno più alte del mensile (in vitto, alloggio e paghetta) riservato agli ospiti del sistema dell’accoglienza.
Con la nuova finanziaria, infatti, le pensioni minime salgono a 780 euro:




I gilet rossi e azzurri protestano per le loro pensioni d’oro che saranno tagliate.
Intanto, grazie al decreto Salvini, i famigerati 35 euro diventeranno tra 21 e 26 euro a seconda della tipologia di accoglienza, con una media prevista di 23 euro a fancazzista (che tra l’altro nei prossimi mesi passeranno dagli attuali 140mila a meno di 40mila).

Quindi, mentre prima del governo populista un pensionato al minimo prendeva 507 euro al mese e un richiedente asilo l’equivalente di 1.100 euro di media, ora la situazione si ribalta: il pensionato al minimo prenderà 780 euro mentre il cosiddetto profugo 690.
Non a caso è il governo populista. Sia chiaro: i ‘profughi’ dovrebbero prendere ‘0’, ma il provvedimento è fantastico.
E il modo migliore di finanziare gli italiani è proprio attraverso le pensioni. Non solo i pensionati, ma anche i loro figli e nipoti: è l’unico modo certo con il quale si è certi che, nel 99 per cento dei casi (purtroppo il PD ha inquinato anche le pensioni) a italiani.
Tutti gli altri modi (reddito di cittadinanza compreso) rischiano di finire in troppi casi agli immigrati.
Prendiamo il caso del bonus bebè. A Vicenza, il Tribunale ha obbligato l’Inps a concedere il bonus bebè ad una signora del Burkina Faso arrivata da poco in Italia. A Brescia e Mantova sono state emesse sentenze identiche e secondo i sindacati, che sostengono le straniere, sono in arrivo altri ricorsi. E dove non riescono i giudici nazionali, ci pensano quelli Ue.
A Brescia, per esempio, il primo grado aveva dato ragione all’Inps ma i giudici di appello hanno deciso di rivolgersi alla corte Ue per un consulto. Risultato: “I cittadini dei Paesi non Ue ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi, a norma del diritto dell’ Unione e del diritto nazionale – hanno sentenziato i togati europei – devono beneficiare della parità di trattamento rispetto ai cittadini di detto Stato”. Insomma: l’Italia deve pagare.


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